Costruire un linguaggio condiviso
Se vogliamo essere designer di parole qualche responsabilità però ci tocca, anche se non ci piace o preferiremmo fare altro piuttosto che entrare in questioni spinose e complicate.
A ottobre 2020 mi hanno invitato a parlare a Talk UX, una conferenza internazionale dedicata al design e alla tecnologia al femminile. Il tema di quest’anno è lo human centered design; ho fatto la quadra con gli argomenti che mi piacciono di più e ho deciso di parlare di scrittura e linguaggio inclusivo e accessibile.
Mentre mettevo insieme i pensieri, mi sono resa conto che per essere accessibile la scrittura deve essere inclusiva.
Anzi, che senza inclusione non c’è accessibilità.
Messaggi per tutte e di tutte le persone
Includere significa portare dentro chi è fuori. Per farlo dobbiamo prima riconoscere cos’è fuori, e quali sono i motivi che hanno separato questi due spazi.
Se vogliamo essere designer di parole qualche responsabilità però ci tocca, anche se non ci piace o preferiremmo fare altro piuttosto che entrare in questioni spinose e complicate.
La scrittura accessibile è già di per sé complicata. Si rivolge a tutte le persone, è chiara e comprensibile nel significato linguistico e nel senso che assume nel contesto nel quale la trovo: a livello lessicale e semantico.
Per esempio, il messaggio “ Il file ha generato un errore” è chiaro e comprensibile a livello lessicale (capisco le parole della frase) ma a livello semantico no (non mi dà indicazioni, mi impedisce di fare delle azioni).
Un testo accessibile deve essere facile da capire, dire e usare per qualsiasi persona.
Uno inclusivo anche, ma con una differenza qualitativa: deve essere facile da capire, dire e usare e far sentire ciascuna persona rappresentata nella sua individualità di valori e di scelte.
Non è una roba da beghine del Devoto-Oli, è la nostra posizione di designer che hanno il potere di influenzare con le loro parole le scelte digitali di altre persone.
Ma proviamo a restare umili.
Misurare quanto è inclusivo un testo
Misurare quanto è inclusivo un testo è difficile. Il punto di vista qui è emotivo e soggettivo e richiede uno sforzo di empatia e metacognizione.
Se scrivo un testo accessibile per un sito della PA curo gli aspetti che lo rendono comprensibile a tutte le persone che lo useranno, se scrivo un testo inclusivo devo prima riflettere bene su cosa voglio dire e come dirlo.
L’inclusività vive nel cuore dell’informazione e nel modo in cui il pubblico che la legge la riconosce e la fa sua.
Ci sono parecchie domande scomode da farci, anche se non ci va.
- I testi che scriviamo mostrano che parlo da una posizione di privilegio?
- La mia visione si basa solo sulla mia esperienza o è offuscata da bias di genere?
- Il mio testo è discriminatorio o offensivo per una parte della popolazione?
Un linguaggio inclusivo comprende tutte le persone per età, scolarizzazione, etnia e genere.
E capire se lo stiamo usando o no è facilissimo, direi matematico: se un testo non include, automaticamente esclude.
Potenzialmente, tutti gli utenti di prodotti e servizi digitali possono vivere esperienze di esclusione. Il linguaggio negativo e discriminatorio ha molte forme: divieti di accesso, forzature sull’identità, esclusioni, esperienze psicologiche frustranti.
Dopo mesi di letture, posso dire che la community degli UX Writer una risposta a questo tema ce l’ha: per costruire un linguaggio inclusivo è necessario che sia condiviso.
Bello. Ma come si fa?
Come si fa in generale non lo so, ma ti racconto come lo facciamo noi.
Vietato l’ingresso ai maggiori di 65 anni
Abbiamo scoperto che un’ esperienza frustrante per molte persone è scrivere la propria età nei moduli di registrazione.
Non è un buon modo per iniziare una relazione umana o commerciale, e per questo il box dell’età non lo inseriamo mai.
Se il cliente arriva a minacciare di non pagarci se non lo inseriamo, scegliamo le fasce d’età (personalmente sono a cavallo di una di queste fasce e allora dichiaro il falso per ripicca).
Alcuni siti considerano come età accettabile dai 18 ai 65+. Varrebbe la pena ricordare che l’età della popolazione mondiale cresce, e che 65+ può arrivare a comprendere parecchi decenni di pensioni e di fette di mercato, per parlare solo in termine di soldi.
Genere o sesso
C’è ancora molta confusione sulla differenza fra genere e sesso.
Il sesso è il genere che abbiamo alla nascita, il genere è l’identità alla quale sentiamo di appartenere o di non appartenere.
Per questo è corretto chiedere il genere aggiungendo alla classica divisione F/M anche altre voci: le più comuni sono “altro”, “non binary”, “preferisco non dirlo”. Altro è orribile: sembra dire che c’è una cosa giusta e un’altra cosa. Anche “non binary/non binario” è simile. La soluzione migliore sarebbe permettere alla persona di autodefinirsi, in un campo libero.
In italiano e nella maggior parte delle lingue, il campo del genere è superfluo e va inserito solo se strettamente necessario.
Più complicata la questione del pronome: in inglese si usa “they/them” al posto di “she/her” e “him/his”, noi non abbiamo un vero e proprio neutro, ma valgono le regole per evitare i maschili (o femminili) usando sostantivi o le solite soluzioni punk.
Person-first
Abbiamo smesso di dire che Photoshop è per graphic designer, fotografi, illustratori e 3D artists. Diciamo invece: Photoshop ti aiuta a creare grafici, fotografie, illustrazioni e 3D art. È un passaggio sottile che va da una forma prescrittiva e esclusiva a una più inclusiva. Il linguaggio assegna un valore alle parole: se dico che una persona è confinata su una sedia a rotelle do un giudizio, se dico che usa la sedia a rotelle libero la frase.”
Andy Welfle, Product Content Strategist per Adobe
Prodotti per chi?
Se il nostro linguaggio dice a un potenziale utente che nella progettazione non abbiamo pensato alle esperienze che farà, non userà i nostri prodotti.
Sara Watcher-Boettcher, Coach, Strategist e autrice di Technically Wrong: Sexist Apps, Biased Algorithms, and Other Threats of Toxic Tech, ha parlato spesso di app di fitness che danno per scontato che chi le userà è in forma e vuole migliorare le proprie prestazioni. I messaggi premiano chi supera gli obiettivi fissati e mostrano emoji scontente per performance “disallineate”.
Cosa succede però se a usarle è una persona in riabilitazione o che ha caratteristiche fisiche o psicologiche non previste dalle impostazioni iniziali?
Punti di vista diversi
Torneremo ancora su questo tema. Qualche soluzione per migliorare l’inclusione però c’è:
1. Cambiare prospettiva. Se devo chiedere “Chi è il proprietario dell’auto?” posso dire “A chi appartiene l’auto”. L’oggetto della domanda non è più la persona, ma il bene.
2. Spiegare meglio. Le parole hanno potere, e chi le usa di più. Spiegare permette alle persone di avvicinare i prodotti, i servizi, e capire se fanno per loro, in qualsiasi condizione.
4. Eliminare quello che non serve. Ci sono dati non necessari, che fanno polvere nei database e servono solo per alimentare il delirio di onnipotenza. Il dato in sé non ha valore. Ce l’ha il motivo per cui lo chiediamo.
Bibliografia:
Questo articolo è contenuto nella newsletter Caipiroska di ottobre 2020, ed è stato pubblicato su https://www.officinamicrotesti.it il 5 febbraio 2021.